
Si può ancora avere il diritto di esistere senza essere desiderati?
Oggi domando a voi:
quando, nella storia recente dell’Occidente, il fatto di non attrarre turisti ha cominciato a essere percepito come un segno di sconfitta collettiva?
C’è stato un momento preciso in cui questo passaggio è avvenuto?
E, soprattutto, chi ha stabilito che fosse un fallimento?
🤔
Insegnando la lingua e cultura italiana a studenti adulti danesi, capita spesso che una lezione di lingua si trasformi in una riflessione più ampia sul presente.
È successo anche oggi, al termine di una lezione privata tenuta da Enrica.
Al termine della lezione mi ha raccontato che, durante la conversazione in italiano con una studentessa, è emerso il tema dell'overtourism a Firenze.
Un caso emblematico, che conosciamo bene: flussi costanti, perdita di equilibrio tra residenti e visitatori, città che sembrano smettere di essere luoghi vissuti per diventare paesaggi attraversati.
Ma poi, come naturale prosecuzione della riflessione, hanno commentato anche un articolo uscito proprio oggi, 14 luglio 2025, pubblicato da Danmarks Radio (DR), dal titolo:
⚠️ "Alt, alt, alt for mange: Dansk ferieby går fra 300 beboere til 30.000 turister om dagen"
Che in italiano significa:
"Troppi, troppi, troppi: una località turistica danese passa da 300 abitanti a 30.000 turisti al giorno."
Il caso è quello di Blåvand, un piccolo villaggio della costa occidentale della Danimarca, che in estate subisce una trasformazione radicale: da luogo vissuto a luogo congestionato.
L'articolo dà voce ad alcuni residenti, che raccontano con una certa rassegnazione l'impossibilità di muoversi, la pressione continua, il traffico, l'invivibilità degli spazi più quotidiani — come i supermercati.
Eppure, ciò che colpisce di più non è tanto la quantità dei numeri quanto la qualità delle reazioni istituzionali.
🎙️ Una dichiarazione che sposta tutto
Il sindaco del comune di Varde, Mads Sørensen, viene citato nell'articolo con questa affermazione:
"Non possiamo permetterci di spaventare i turisti."
Attenzione! Perché questa non è una frase qualsiasi.
È una dichiarazione che contiene, in forma quasi inconsapevole, un'intera ideologia politica.
Un'amministrazione che afferma di non poter spaventare il turista sta dicendo che il turista è diventato soggetto dominante, figura da compiacere, da trattenere, da non deludere. È una frase che rivela quando abbiamo ribaltato le priorità: non più il cittadino, ma l'ospite.
Non più chi vive e costruisce nel tempo, ma chi passa e consuma nell'immediato.
🤔 Da dunque quando l’idea di perdere un turista pesa più dell’idea di perdere un abitante?
Ed è a questo punto che, come mi ha raccontato Enrica, la studentessa danese ha detto — quasi con tono neutro, senza provocazione — una frase che merita attenzione:
👉🏻 "Noi non abbiamo bisogno del turismo per vivere bene, non eravamo poveri prima.
Questo tipo di turismo è per quei territori che non hanno altre possibilità di generare economia."
✅ Una riflessione che ribalta tutto
Una riflessione limpida, che da sola sposta il baricentro del discorso.
Quel "non eravamo poveri prima" non è soltanto un'osservazione economica: è un'affermazione filosofica.
È la consapevolezza che non tutto deve essere esposto, venduto, adattato allo sguardo altrui.
È il riconoscimento che l'identità di un luogo non ha bisogno di essere desiderata per esistere.
È, soprattutto, la dimostrazione che non interessare ai turisti può essere una scelta, non una mancanza.
E allora la vera questione — che forse in Italia fatichiamo ancora a formulare con chiarezza — non è semplicemente se il turismo sia utile o dannoso.
Ma chi può permettersi di sceglierlo e chi, al contrario, è costretto ad accettarlo per mancanza di alternative.
Là dove esistono altre forme di economia, altre risorse, altre visioni del futuro, il turismo può essere una dimensione tra le altre, da regolare, dosare, contrattare.
Ma dove è diventato l'unica risorsa immaginabile, l'unico racconto legittimo del domani, tutto si piega alla sua logica: gli spazi, i ritmi, le scelte pubbliche.
In questi quasi, non si può più dire "no", perché dire "no" significherebbe mettere in discussione la struttura stessa della sopravvivenza locale.
❓ Il senso del limite perduto
"Non possiamo permetterci di spaventare i turisti." è una frase che andrebbe letta in parallelo con un'altra domanda, mai pronunciata ad alta voce:
Chi siamo diventati, se il disagio del turista ci inquieta più del nostro?
Perché qui non è più in gioco soltanto la gestione dei flussi o l'equilibrio tra turismo e vivibilità.
Qui è in discussione l'idea stessa di ospitalità in una società che ha smarrito il senso del limite.
Se tutto deve essere accogliente, se ogni luogo deve essere aperto, vendibile, disponibile, allora nulla può più essere davvero abitato.
Nulla può essere custodito. Nulla può avere un ritmo diverso, una soglia, una fragile resistenza.
Sia chiaro, il problema non è il turismo. Il problema è l'assolutizzazione del principio turistico, la sua estensione a ogni sfera dell'esistenza, fino a rendere ogni spazio, ogni tempo, ogni identità, potenzialmente consumabile.
E in questo processo, non sono solo i luoghi a essere compromessi. Lo è anche il nostro sguardo.
⚠️ Quando l'altro diventa un servizio
Perché quando non riusciamo più a distinguere tra ciò che è accessibile e ciò che è disponibile, tra ciò che si offre e ciò che si cede, allora abbiamo smesso di vedere l'altro come un abitante — e abbiamo cominciato a trattarlo come un servizio.
In questo senso, la frase della nostra studentessa non è solo realistica. È radicale.
Dice che si può vivere bene senza essere visitati, e che non ogni economia che produce valore deve passare per la spettacolarizzazione di sé.
Dice che non interessare al turista non è un fallimento, il fallimento è dipendere da esso.
✅ E questa, oggi, è una forma di libertà più rara di quanto sembri.
La libertà di non dover sedurre nessuno per esistere.
@Articolo di Valentino Cocco
Approfondimento:
Se questa riflessione sul diritto di esistere senza dover piacere a chi viaggia ti ha fatto pensare, ne parlo nel mio libro Il Ricatto del Turismo Autentico.
Nel volume analizzo come la ricerca di attrattività sia diventata una forma di dipendenza collettiva, in cui i luoghi smettono di appartenere a chi li vive per diventare risposte confezionate alle aspettative di chi arriva.
Esploro il confine tra accoglienza e rinuncia, e come il turismo, guidato da logiche di mercato e immaginari rassicuranti, finisca per ridefinire il senso stesso dell’abitare. Attraverso un’analisi critica della narrazione turistica dominante, propongo strumenti per riconoscere questi meccanismi e ripensare l’ospitalità come scelta consapevole, capace di proteggere la complessità — e anche il limite — dei luoghi reali.

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