
In questi giorni rimbalza ovunque una frase di Licia Colò, detta al Festival CostellAzioni Letterarie 2025:
"Volevo comprare casa ad Alghero, poi ho visto i voli e ho cambiato idea."
Durante il suo intervento sulla naturalezza – dove è passata dal cambiamento climatico alla tecnologia fino alle comunità locali – la conduttrice ha raccontato che, due anni fa, nel 2023, stava davvero pensando di acquistare una casa in Sardegna. Poi ha guardato i collegamenti aerei e ha rinunciato.
Una frase all’apparenza marginale. Eppure ha toccato un nervo scoperto: non riguarda solo lei, ma una ferita che da vent’anni medicano con i cerotti sbagliati. Il paziente, intanto, continua a perdere sangue.
Perché continuiamo a parlare di turismo sostenibile, borghi autentici, nomadismo digitale e slow tourism come se fossero la panacea di ogni male delle aree interne – quelle meno baciate dalla modernità – quando i dati nudi e crudi ci raccontano tutt’altra storia?
I numeri ENAC del 2024 sono lì, implacabili come un referto: l’Italia si spacca in due. E noi, mentre ci culliamo in favole di autenticità e lentezza, continuiamo a non guardare l’emorragia.
Primo Livello: La Mappa dell’Abbandono
L’Italia ha 45 aeroporti certificati. Tre – Albenga, Aosta, Taranto Grottaglie – non hanno movimentato un solo passeggero commerciale nel 2024: aeroporti fantasma in un Paese che ama raccontarsi “ben collegato”.
Ma il dramma non sta solo nei numeri assoluti. Sta nella loro distribuzione:
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Il Nord ha 19 aeroporti. Da quasi ovunque tu sia, un’ora d’auto o poco più e sei in pista. Milano addirittura se ne permette tre: Malpensa, Linate, Bergamo. Tre porte d’accesso al mondo nel raggio di cento chilometri.
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Il Sud ne ha 9, sparsi su un territorio enorme e con collegamenti interni spesso ridicoli.
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Le Isole ne hanno 11, ma prova tu a raggiungere Cagliari dall’interno della Sardegna coi mezzi pubblici. O Catania dalle Madonie.
Forse è questo che si intende realmente per turismo lento.
Ma non è un semplice dettaglio tecnico.
È geografia delle possibilità negate:
il ritratto di un Paese dove nascere nel posto sbagliato significa partire svantaggiati, nonostante vent’anni di slogan su borghi e lentezze salvifiche.
Secondo Livello: I Numeri che Smentiscono le Favole
Roma Fiumicino movimenta 48,7 milioni di passeggeri l’anno.
Milano Malpensa quasi 29 milioni.
Bergamo – che un tempo chiamavamo “di provincia” – 17 milioni.
E Crotone? 276.000.
Grosseto? 119 passeggeri in tutto l’anno. Centodiciannove: meno di quelli che transitano a Fiumicino in un quarto d’ora qualsiasi. 😅
Il dato più pesante: i primi cinque aeroporti italiani concentrano il 54% del traffico nazionale. Tradotto:
metà delle possibilità di movimento aereo del Paese dipende da sole cinque strutture.
E noi? Da vent’anni insistiamo: più agriturismi, più sentieri di trekking, più festival del borgo autentico. Come se il turismo esperienziale potesse compensare la totale assenza di infrastrutture di collegamento decenti, umane, competitive.
Terzo Livello: La Frequenza Come Sentenza di Morte
Qui sta il punto che Licia Colò ha intuito al volo, senza la necessità di dover scomodare le statistiche.
Un aeroporto non deve solo esistere:
deve avere frequenze che lo rendano usabile da chi deve lavorare,
non solo da chi va in vacanza ad agosto.
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Roma Fiumicino: 845 voli al giorno.
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Milano Malpensa: 560.
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Bergamo: 209.
Altra traduzione: puoi sempre partire, quando e per dove vuoi.
Crotone? Sei voli al giorno. Reggio Calabria? Quattordici. Pantelleria? Dieci.
Prova a costruire un’attività internazionale o una rete professionale con sei voli quotidiani verso due destinazioni e mezza.
E mentre questi numeri urlano, noi continuiamo a parlare di smart working e nomadismo digitale. Certo, puoi lavorare ovunque. Purché quell’ovunque sia collegato. Altrimenti, altro che nomadismo: è un privilegio per chi vive già nei posti giusti, a tre orti e cinque alberi da Orio al Serio.
Quarto Livello: La Geografia Racconta Chi Conta
I 6,7 milioni di passeggeri diretti verso il Nord America partono quasi esclusivamente da Roma e Milano. Stesso discorso per l’Asia sviluppata: pochi hub, sempre quelli.
Se vivi in Calabria e vuoi andare a New York però, devi fare scalo. Ore di viaggio in più, costi e complicazioni. Vale anche al contrario: un newyorkese che volesse raggiungere la Calabria affronta la stessa odissea: quella buone dose di lentezza non proprio idilliaca.
Gli aeroporti del Sud cosa collegano invece? Albania, Balcani, Nord Africa. Non è poesia: è il riflesso del posizionamento economico reale. Sono aeroporti di servizio per aree meno sviluppate, mentre Milano e Roma sono le porte verso i mercati globali.
E noi continuiamo a raccontarci che basterà il turismo enogastronomico, o il festival del borgo, per rimettere in moto questi territori. Come se bastasse vendere la nonna Maria experience per compensare l’assenza di connessioni verso i mercati che contano davvero.
Quinto e ultimo livello: La Dipendenza Low-Cost Come Fragilità Sistemica
Il 62,8% del traffico aereo italiano dipende dalle low-cost, soprattutto Ryanair.
Non è democratizzazione del volo: è dipendenza strutturale.
Ryanair domina ventitré dei quarantacinque aeroporti italiani, in particolare quelli piccoli e medi. Intere regioni vivono appese alle scelte commerciali di una compagnia irlandese. Se domani taglia una rotta, un territorio intero resta isolato. È successo recentemente con la Billund-Alghero: migliaia di danesi in meno nel Nord Sardegna dall’oggi al domani.
E intanto, soldi pubblici a pioggia in promozione turistica, fondi europei per musei degli oggetti umili, per agriturismi, b&b, percorsi dell’autenticità, sagre paesane. Come se il problema fosse che il mondo non sa quanto siamo bravi a fare il pesto con il mortaio e il tagliere di legna ereditati, i ritrovati nella cantina della buon'anima di nonna.
La Verità che Non Vogliamo Ammettere
Dopo vent’anni di investimenti - forse più - nel turismo “sostenibile”, nei cammini, nell’enogastronomia e nei borghi autentici, il calo demografico delle aree interne è peggiorato. Le statistiche sono implacabili: perdiamo popolazione nonostante festival, agriturismi e retoriche sul ritorno alla vita genuina.
Perché? Perché abbiamo scambiato il marketing territoriale per politiche di sviluppo. Perché abbiamo creduto che bastasse raccontare storie belle per risolvere problemi strutturali. Perché abbiamo pensato che il turismo potesse sostituire un’economia diversificata e competitiva.
Il turismo lento non è sbagliato in sé.
È che lo abbiamo usato come scusa per non affrontare i problemi veri:
infrastrutture, connessioni, servizi essenziali.
Abbiamo preferito vendere la favola dell'autenticità invece di costruire modernità.
Abbiamo scelto la lentezza come racconto, non la velocità quando serve.
Laviamoci la faccia
Dopo vent’anni di borghi più belli, cammini, nomadismo digitale e lavoro agile, perché le aree interne continuano a spopolarsi?
Perché una persona come Licia Colò – che ama quei territori e non ha problemi economici – rinuncia ad Alghero solo per i collegamenti?
Forse è ora di ammettere che abbiamo sbagliato diagnosi.
Il problema delle aree interne non è di immagine, non è di attrattività turistica, non è di autenticità.
È un problema di connessione sistemica: accesso al mondo, servizi, possibilità concrete di vita e lavoro.
I dati ENAC sono un referto impietoso: raccontano un Paese diviso tra territori iperconnessi e territori tagliati fuori. Tra chi può guardare al futuro e chi è condannato a vivere di nostalgia e turismo occasionale.
Finché continueremo a credere che basti il marketing territoriale per sanare fratture strutturali, continueremo a vedere cieli vuoti e territori che muoiono lentamente
storie che puzzano di vestiti in naftalina,
rimpianti di chi sogna il passato
ma intanto preferisce asciugarsi le camicie con l’armadio smart.
@Articolo di Valentino Cocco
@Fonte https://www.enac.gov.it/
Approfondimento:
Se questa riflessione sui cieli che dividono il Paese e sulle infrastrutture che plasmano le possibilità di vita ti ha fatto pensare, ne parlo nel mio libro Il Ricatto del Turismo Autentico.
Nel volume analizzo come la ricerca di attrattività abbia sostituito la costruzione di accessibilità reale, trasformando i territori in cartoline accattivanti ma isolate, incapaci di sostenere una vita quotidiana degna di questo nome.
Esploro il paradosso di aree interne celebrate per la loro lentezza ma abbandonate sul piano dei collegamenti, e come il turismo, guidato da narrazioni rassicuranti e logiche di mercato, finisca per spostare l’attenzione dalle necessità di chi resta a quelle di chi arriva. Attraverso un’analisi critica delle retoriche di autenticità e sostenibilità, propongo strumenti per riconoscere questi meccanismi e ripensare lo sviluppo come un equilibrio tra apertura e diritti di chi abita i luoghi.

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