Il turismo lento non è la cura. È il sintomo di un disagio sociale profondo.

A proposito di turismo lento e di questa crescente voglia di borghi, autenticità, tradizioni, case in pietra, ricette della nonna - quell'angolo di ripristino per l'anima che promette di salvarci dalla modernità e dai suoi tempi frammentanti - vale la pena chiedersi:

cosa c'entra l'esplosione di questo fenomeno con il modo in cui comunichiamo online?

Perché proprio ora che siamo iperconnessi cerchiamo disperatamente luoghi "disconnessi"?

Riflettendo sui disagi del nostro tempo – compresi i miei – riconosco nelle modalità di comunicazione contemporanee una delle chiavi che spiegano, almeno in parte, il successo di chi riesce a vendere il turismo lento con tutti i suoi tratti consolatori.


📱 Come comunichiamo oggi

Non serve molto per accorgersi che le nostre giornate sono ritmate da un flusso ininterrotto di informazioni: comunicazioni fisiche e digitali, dati trasmessi in bit e in frequenze sonore, stimoli rapidi e frammentati che invadono ogni spazio.

Parafrasando McLuhan e la sua intuizione che "il medium è il messaggio", ciò che ci si presenta ai nostri occhi è un mondo a misura di frenesia delle informazioni rapide e superficiali - dal contenuto cognitivo ultraridotto - tipica della società in rete, che sta plasmando la percezione del nostro tempo sul piano fisico.

I modelli di comunicazione a cui ci sottoponiamo quotidianamente sono talmente accelerati che stiamo perdendo la facoltà di sviluppare ragionamenti logici articolati.

Considerate questo:

passiamo in media 2 ore e 23 minuti al giorno sui social media, mentre la nostra soglia di attenzione è crollata da 12 secondi nel 2000 a soli 8 secondi oggi.

I feed ci mostrano contenuti da un'infinità di persone provenienti da ogni parte del mondo, con background culturali completamente diversi, ognuna con pensieri su temi scollegati tra loro, senza connessione logica alcuna, in cicli sempre più rapidi.

Scambiamo informazioni in maniera schizofrenica, perdendo progressivamente il senso di chi siamo e da dove veniamo.

Immaginate di traslare tutto questo sul piano fisico :

siamo in una piazza con milioni di persone e continuamente ci giriamo verso qualcuno per ascoltare un frammento di tema, per poi spostarci immediatamente a un altro, così per ore, settimane, mesi, anni.

Per quanto possa sembrare assurdo, è realmente questo il modo di comunicare che stiamo attuando. 😅


🗣️👂 La ricerca inconscia di conversazioni vere

Ecco dunque la prima risposta alla nostra domanda: il turismo lento nasce come reazione istintiva a questa babele digitale.

Non è un caso che molti luoghi turistici inizino a pubblicizzare:

"No wi-fi here, just real conversations".

Le conversazioni umane, per questioni logistiche, non possono assumere la dinamicità schizofrenica dei social. La conversazione fisica ha tempi dilatati, rilassati, anche se oggi si sta perdendo la capacità di argomentazione profonda.

Eppure, c'è qualcosa di paradossale in questa ricerca. Quando arriviamo in questi luoghi "disconnessi", spesso portiamo con noi gli stessi schemi mentali che abbiamo sviluppato online. Ascoltiamo l'anziano del paese che ci racconta la storia locale, ma la nostra mente continua a funzionare per frammenti, aspettando inconsciamente il momento di "scrollare" verso altro. È come se il nostro cervello, abituato a processare centinaia di stimoli diversi in poche ore, faticasse a rimanere fermo su una sola narrazione, su una sola voce, su un solo punto di vista culturale.

Questo rivela quanto sia profondo il condizionamento: non basta togliere il wi-fi per recuperare la capacità di ascolto. Il disagio che proviamo nei primi momenti di una conversazione lenta - quella sensazione di irrequietezza, di voler "andare al sodo" - è la prova che il problema non è solo nei dispositivi, ma nella trasformazione dei nostri processi mentali.

Cerchiamo nei borghi quella dimensione umana che abbiamo smarrito, ma spesso ci accorgiamo che siamo noi ad averla dimenticata.

Il turismo lento diventa così un tentativo disperato e inconscio di rieducazione: imparare di nuovo ad ascoltare una storia dall'inizio alla fine, a tollerare i silenzi, a non cercare costantemente il prossimo stimolo.


✍️ Quello che abbiamo perso

Ma per capire davvero perché cerchiamo la salvezza nei borghi, dobbiamo scavare più a fondo.

Questo bisogno disperato di documentare anche la nostra fuga dalla tecnologia rivela qualcosa di più profondo: abbiamo perso ciò che Narciso Mostarda in "La Società Adolescente" chiama il senso del racconto. Quello che scandiva i rapporti tra generazioni e rafforzava il senso di comunità e identità.

I racconti erano specchi identitari: parlavano di noi, del nostro territorio, delle nostre tradizioni, di ciò che eravamo e volevamo diventare.

Creavano una continuità narrativa che legava nonni, genitori e figli attorno agli stessi valori, agli stessi riferimenti culturali, alle stesse aspirazioni collettive.

Oggi questa continuità si è spezzata. Invece di ascoltare le storie del paese, della famiglia, del nostro gruppo sociale, ascoltiamo frammenti di vita di sconosciuti dal mondo intero.

Un influencer di Los Angeles ci racconta come fare colazione, un nomade digitale da Bali ci spiega il successo, un guru della finanza da Dubai ci illumina sugli investimenti.

Tutti parlano lingue diverse, hanno riferimenti culturali opposti, vivono in contesti che non c'entrano nulla con il nostro.

Il risultato è devastante: non abbiamo più una narrazione condivisa che ci dica chi siamo.

Non sappiamo più se i valori che ci hanno trasmesso i nostri genitori hanno ancora senso, se le tradizioni del nostro territorio sono antiquate o preziose, se la strada che stiamo percorrendo è quella giusta per noi o quella che vediamo fare ad altri online.

Nei racconti tradizionali c'era ascolto: uno parlava, molti ascoltavano, il proprio io si rispecchiava con tempi lunghi, necessari per l'introspezione. Le conquiste erano lente, sudate, epiche, riconosciute dalla comunità di appartenenza.

Oggi tutti parlano e nessuno ascolta davvero. Ogni conquista deve essere immediata, performativa, validata da estranei attraverso like e condivisioni.

Le modalità comunicative dominanti ci allontanano dal senso di individuo autentico e di comunità radicata, trasformandoci in una mandria digitale:

fisicamente insieme ma esistenzialmente soli, tutti connessi ma nessuno davvero in relazione.


🤯 La vera questione

Torniamo dunque alla domanda iniziale:

cosa c'entra l'esplosione del turismo lento con il modo in cui comunichiamo online?

Il turismo lento si rivela per quello che è: non resistenza alla velocità, ma sintomo della nostra incapacità di sviluppare una relazione matura con la complessità contemporanea. Invece di imparare a gestire il disagio identitario e comunicativo, lo evitiamo temporaneamente per tornarci con maggiore voracità.

Il problema non sono i social in sé, ma la nostra incapacità di comprenderne la natura e sviluppare quella che potremmo chiamare "resistenza digitale": saper scegliere quando accelerare e quando rallentare, quando connettersi e quando staccare, ma soprattutto quando ascoltare voci che vengono dalla nostra cultura e quando invece aprirci al mondo.

Il rischio è che il turismo lento diventi l'ennesima forma di consumo accelerato travestita da resistenza alla velocità - una contraddizione che rivela quanto sia profonda la nostra confusione su cosa significhi vivere bene nel presente senza perdere noi stessi per strada.

Ecco perché proprio ora che siamo iperconnessi cerchiamo disperatamente luoghi "disconnessi":

👉🏻 non per trovare l'autenticità, ma per l'illusione di poter ritrovare almeno temporaneamente noi stessi.


@Articolo di Valentino Cocco

Approfondimento:

Se questa riflessione sul turismo lento come sintomo del nostro disagio contemporaneo ti ha fatto pensare, ne parlo nel mio libro Il Ricatto del Turismo Autentico.
Nel volume analizzo come l’autenticità venga spesso usata per costruire un’illusione rassicurante, trasformando i luoghi in scenari emotivi più adatti a placare l’inquietudine del turista che a rispondere ai bisogni reali di chi quei luoghi li abita.

Esploro il confine tra esperienza e rappresentazione, e come il turismo, guidato da logiche di mercato e narrazioni selettive, finisca per offrire soluzioni estetiche a crisi identitarie profonde.
Attraverso un’analisi critica dell’autenticità, propongo strumenti per riconoscere questi meccanismi e ripensare il turismo come spazio di relazione consapevole, capace di accogliere — senza edulcorarle — le complessità del presente.


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