Dal Grand Tour al Grand Business: quando il turismo trascura il ruolo dell’uomo

Il turismo è una disciplina economica o umanistica?

Luigi D'Ambrosio, mio carissimo amico e docente di International Hospitality Management all'Università di Aalborg, condivide un articolo.

Lo leggo. La mascella me la tengo in mano per un po'.

L'Università di Aalborg chiude dodici corsi di laurea.

Filosofia applicata, fuori. Musica, fuori. Comunicazione internazionale, fuori.

La motivazione?

Bassa domanda di iscrizione e scarsa occupabilità post-laurea.

I posti vengono redistribuiti verso materie più spendibili. Che poi spendibili dove, con chi e soprattutto per fare cosa, non si sa. Ma questo è un dettaglio.

Jes Lynning Harfeld, docente di Filosofia applicata, chiama l'annuncio "una bomba", e Luigi, che vive questa trasformazione dall'interno, pone una domanda più radicale, una di quelle che dovrebbe toglierci il sonno:

stiamo liquidando l'umano nella nostra società?

 

La domanda è vecchia, lo so. Ma le domande vecchie hanno il brutto vizio di tornare sempre, perché nessuno si è mai preso la briga di risponderci davvero.

Allora eccola qui, di nuovo:

che cosa resta delle scienze umane quando il sapere si misura soltanto in euro?

E soprattutto:

dove la mettiamo una disciplina come il turismo, che sta a metà tra un bilancio aziendale e una poesia di Carducci?

Leonardo lavorava con gli idraulici

Quando penso a questa frattura tra saperi – questa guerra santa tra chi conta e chi pensa – mi torna in mente il Rinascimento.

Che poi è l'epoca che tiriamo fuori ogni volta che vogliamo sentirci meno provinciali, ma che non abbiamo mai veramente capito.

C'era questo problema, allora: bisognava passare dalla scolastica medievale (tutto nelle mani di Dio e dei libri sacri, e guai a chi dubitava) al metodo sperimentale (tutto nelle mani dell'osservazione, e chi dubita fa bene). Rivoluzione scientifica in arrivo, sipario che si alza sulla modernità.

Ma ecco il punto: gli scienziati non hanno fatto la rivoluzione contro gli umanisti. L'hanno fatta con loro. Insieme. Allo stesso tavolo.

Furono gli umanisti a dare alla scienza un linguaggio, un'etica, una visione del mondo. Tradussero i testi classici, riscoprirono il pensiero critico, riaprirono il dialogo con Aristotele e Platone. Senza di loro, il metodo sperimentale sarebbe rimasto una tecnica muta, efficace magari, ma senza nulla da dire sul perché dovesse importarci qualcosa.

Nelle corti italiane, Leonardo da Vinci lavorava fianco a fianco con ingegneri idraulici e architetti militari. Non è che Leonardo facesse il genio solitario in soffitta mentre gli altri sgobbavano nei cantieri. No. Stavano insieme. Nelle botteghe fiorentine, la prospettiva matematica nasceva dall'incontro tra pittori e matematici. All'Accademia dei Lincei a Roma, naturalisti e filosofi discutevano le scoperte di Galileo come se fosse la cosa più normale del mondo. Perché era normale.

Non erano mondi separati.

Erano lo stesso tavolo di lavoro.

La stessa conversazione.

La scienza rinascimentale nacque dalla fusione, non dalla battaglia campale. E con essa nacque un'idea rivoluzionaria, quella che ancora oggi ci salva quando ci ricordiamo di usarla: la conoscenza si acquisisce con l'esperienza diretta. Non più solo sui libri, per autorità, perché lo ha detto qualcuno che lo ha letto da qualcun altro. Ma anche osservando, toccando, viaggiando.

E qui – guardate che meraviglia – entra in scena il turismo.

Quando viaggiare era studiare

Se l'esperienza diretta è conoscenza, allora viaggiare non è solo svago. È educazione.

Tra il XVII e il XVIII secolo questa idea si cristallizza in una pratica precisa, codificata, quasi rituale: il Grand Tour.

I giovani aristocratici europei partivano per lunghi viaggi attraverso l'Italia. Non era turismo di massa, quello no. Non era il pacchetto tutto compreso con l'ombrellino colorato della guida. Era un investimento formativo con tappe obbligate, maestri che accompagnavano, obiettivi culturali precisi. Visitare Roma, Napoli o Firenze significava tornare con un bagaglio di conoscenze indispensabile per il proprio status sociale. Che poi sì, certo, erano privilegiati. Ma almeno sapevano che quel privilegio andava nutrito con la cultura, non solo con l'oro.

Il Grand Tour era educazione, prestigio e investimento economico. Tutto insieme, senza vergogna.

Chi tornava portava dipinti, incisioni, idee filosofiche, contatti con le corti europee. Un patrimonio che valeva quanto un feudo, se non di più.

La cultura era economia. E l'economia era cultura.

Questo equilibrio tra formazione umanistica e valore materiale rappresentava l'essenza stessa del viaggio: un investimento nella persona che generava ritorno sociale ed economico. Nessuno si scandalizzava perché qualcuno ci guadagnasse. Ma nessuno pensava nemmeno che l'unica cosa che contasse fosse il guadagno.

Ecco la chiave, quella che ci siamo dimenticati:

non erano separate.

Le due cose non erano separate.

Per una Venezia che affoga, c'è un PIL che ringrazia

Oggi il turismo vive la stessa tensione di allora, ma senza la sintesi. Senza la pace. È una guerra civile permanente.

Da un lato lo si può studiare come settore economico: marketing, management, redditività. Flussi, dati, performance. Impatto sul PIL, ritorno sugli investimenti, ricavi per camera disponibile. Tutto perfettamente misurabile, tutto perfettamente ottimizzabile.

Dall'altro lato – ma rigorosamente dall'altra parte della barricata – lo si può studiare come fenomeno culturale: gli antropologi indagano i rituali del viaggio, i sociologi le dinamiche di inclusione ed esclusione, gli storici l'evoluzione dell'immaginario turistico. Che cosa significa viaggiare? Come il turismo trasforma i luoghi? Quali narrazioni costruisce? Domande bellissime, certo. Ma che non pagano il mutuo.

Il turismo appartiene allo stesso orizzonte che legava scienza e umanesimo nel Rinascimento: l'interrogazione sull'uomo e sul suo rapporto con il mondo. È una domanda antica che si manifesta in forma contemporanea. Niente di meno.

Ma quando lo riduciamo a una dimensione puramente economica, lo amputiamo.

Gli togliamo una gamba e gli chiediamo di correre.

Si finisce per gestire il settore senza capirlo.

Per ottimizzare senza interpretare.

Per massimizzare senza chiedersi il perché.

Risultato? Venezia affoga sotto ventotto milioni di turisti l'anno. I suoi abitanti fuggono come profughi dalla propria città. Le calli si trasformano in corridoi di consumo, in non-luoghi dove nessuno abita più e tutti passano. È il frutto perfetto di una gestione economicamente razionale ma culturalmente cieca.

Funziona? Sì, funziona. Il PIL ringrazia. Ma la città muore.

Domandone

Il turismo è una disciplina economica o umanistica?

Il più sveglio del gruppo risponderà Entrambe. O meglio: nessuna delle due, se le pensiamo separate. Perché separate non stanno in piedi.

Il turismo nasce umanistico e si organizza economicamente. La storia ci insegna qualcosa di molto preciso, se abbiamo voglia di ascoltare: ogni volta che l'uomo ha separato la tecnica dal significato, l'economia dalla cultura, la conoscenza si è svuotata del suo scopo. È diventata un guscio vuoto, efficiente magari, ma vuoto.

Se le università dimenticano questa origine e chiudono i corsi di filosofia per aprire master in revenue management, formano ottimizzatori che sapranno massimizzare margini ma non comprendere perché diavolo gli esseri umani cercano l'incontro con l'altro.

Che è poi l'unica ragione per cui il turismo esiste, ma questo è un dettaglio trascurabile, evidentemente.

Una società senza formazione umanistica non diventa solo meno competitiva – che poi competitiva rispetto a cosa, questo non è mai chiarissimo.

Diventa più povera.

Intellettualmente povera.

Umanamente povera.

Diventa una società che sa contare tutto ma non capisce niente.

Quando il turismo perde il suo significato – quando diventa solo un meccanismo, solo numeri, solo ottimizzazione – restano solo flussi da gestire e margini da massimizzare. Restano Venezia che affonda e abitanti che scappano. Restano città-museo senza più abitanti, parchi tematici della propria stessa storia.

Resta il vuoto.

E il vuoto, per quanto ci si sforzi, non ha nulla di interessante da calcolare.


@Articolo di Valentino Cocco

@Riferimenti Uddanelsesmonitor.dk

Approfondimento:

Se questa riflessione sulla frattura tra economia e cultura nel turismo e sulla formazione che rinuncia all'umano ti ha fatto pensare, ne parlo nel mio libro Il Ricatto del Turismo Autentico. Nel volume analizzo, attraverso il concetto di autenticità, come la riduzione del turismo a pura disciplina economica abbia sostituito la comprensione del suo significato culturale, trasformando i luoghi in asset da ottimizzare ma incapaci di generare valore che vada oltre il margine operativo.

Esploro il paradosso di destinazioni celebrate per i loro numeri ma svuotate sul piano del senso, e come il turismo, guidato da logiche di performance e metriche quantitative, finisca per spostare l'attenzione dal perché gli esseri umani viaggiano a quanto si può estrarre da ogni loro movimento. Attraverso un'analisi critica delle retoriche manageriali che hanno colonizzato il settore, propongo strumenti per riconoscere questi meccanismi e ripensare il turismo come disciplina che integra competenza economica e consapevolezza umanistica, restituendo significato a ciò che gestiamo.


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